mercoledì 11 luglio 2012

Molise. Radici e Sapori di Nadia Verdile a Terre del Principe


la copertina del racconto di Nadia Verdile
Metti un tardo pomeriggio d’estate, al calar del sole, al fresco di una vite di uva fragola a casa Terre del Principe a Squille , piccola frazione di CastelCampagnano.
il " tetto" di vite
In tutto una ventina di ospiti per la presentazione del nuovo racconto di Nadia Verdile , per Paccini Fazzi Editori (Lucca).
http://www.lucianopignataro.it/a/molise-radici-e-sapori-di-nadia-verdile-a-terre-del-principe/45721/
al centro l’autrice Nadia Verdile
La conoscenza tra Manuela Piancastelli e Nadia risale ai tempi della permanenza di Manuela alla redazione del Mattino di Caserta, prima di passare a Napoli e prima della radicale scelta di vita, da giornalista a vignaiola insieme al suo principe, l’avvocato Peppe Mancini. La presentazione del racconto è fresca, spontanea ed informale. Nadia parte dalle proprie origini molisane per imprimere anche nella memoria di chi legge, una figura fondamentale  della propria infanzia ed adolescenza. Il racconto è coinvolgente, nessuno apre bocca, pendiamo dalle labbra di Nadia, determinata, piccola, grande donna, capace di trasmettere emozioni all’anima prima, al palato poi. Le proprie radici sono fondamentali, segnano il percorso di una vita. Nadia comincia da brevi cenni sul Molise, terra del Principato Inferiore della geografia borbonica, senza particolari attrattive storiche: il nome pare derivi prima dell’arrivo dei Normanni, da un piccolo borgo nei pressi di Campobasso.

“Terra di emigranti, scrittori, attori, cantanti,
briganti, il Molise conserva una tradizione culinaria
antica, povera e fortemente identitaria. Nelle stradine
dei borghi medievali, passeggiando, arrancando
per i pendii, si riconoscono odori altrove introvabili,
si possono gustare sapori lontani e decisi che hanno
punti di forza nella semplicità delle preparazioni e
nella genuinità degli ingredienti. Molte e variegate le
paste, frequente il connubio con legumi e verdure, la
polenta cibo povero per eccellenza e i suoi mille condimenti;
gli ovini padroni assoluti dei pascoli e delle
mense, offrono carne e formaggi di altissima qualità,
ma anche il maiale lavorato e cotto nei modi più vari.
Una moltitudine di verdure giunge ai fornelli, sono
ortaggi coltivati nei campi difficili da dissodare, che
sanno di molto sudore e poco guadagno. Le zuppe di
pesce nel tratto di mare, la scapece, una marinata riposta
in piccoli mastelli di legno, in cui è conservato.
il pesce senza lische, tagliato a pezzi e fritto.
E poi dolci, liquori, sciroppi, una grande quantità di
specialità, ogni paese conserva la propria. In questa
terra di verde, di valli, di colli e montagne, di pascoli
a perdita d’occhio, di antichi tratturi, di fiumi asciutti,
di piste da sci, di cavalli bradi, lupi, volpi, aquile
fiere, di coltelli e arrotini, di filatrici di tombolo e ricamatrici,
di campane e zampogne, si diramano sane
le mie radici. Se resto in piedi lo devo a loro.
Uno spuntone di roccia ospita da secoli un piccolo
arroccato paesino che si attorciglia intorno ad un castello
angioino, un’antica fortezza su cui aleggiano
ricordi e leggende. Un mastino a guardia di un paesaggio
che lascia senza fiato, che si incontra per caso
e si resta folgorati: Macchiagodena, borgo nella terra
isernina di poche persone, di molte case abbandonate,
di alberi selvatici nelle campagne incolte, di alberi
fruttuosi e dolci delle terre sudate, solcate tra rocce
forti e pesanti. Qui nacque mia madre. Qui riposa per
sempre mia madre. Che non ha mai visto mia figlia,
che mi ha permesso di avere Dafne, mia figlia.
Più in là, a qualche chilometro di distanza, un triangolo
di case poste intorno a campanili sparsi e maestosi.
Steso come un fanciullo vispo, spossato dalle troppe
corse, c’è il paese di mio padre. Piccolo, ancora più
racchiuso. Sdraiato. Senza fortezze a proteggerlo. Più
semplice, invaso d’estate da migliaia di figli lontani
che ritornano. Desolatamente disabitato in inverno,
dove nemmeno più la scuola ha ragione di esistere:
non ci sono bambini.
Sant’Elena Sannita lo chiamano, un tempo era Cameli.
Lì, in quelle viuzze strettissime che a passarci ne
sfiori i muri, ci sono le mie radici. In quelle antiche
corse fatte da mio padre bambino, che racconta inseguendo
un ricordo lontano, quando ci si rincorreva e
si giocava a sassate mangiando solo pane, polenta e
avendo tante volte freddo.
Quel freddo che in Molise è forte d’inverno, quando
la neve scende giù soffice e a guardarla ti accorgi
della poesia della natura. Quella neve che isola però
i paesi, che li tiene separati e lontani, l’uno dall’altro,
ciascuno dal mondo. I miei nonni. Gente antica,
donne e uomini forti, figli di una montagna che rende
duri e lontani. Oggi, nessuno di loro è più con me.
Vivono, però, con orgoglio, i ricordi che mi hanno lasciato,
gli insegnamenti, i segni, gli esempi. In questa
terra ho le mie radici. Ogni volta che ritorno in Molise
si rinnova il miracolo. Non so spiegare cosa accada
in me quando il cartello dell’Anas segnala l’inizio
del compartimento di Campobasso. È un fatto di sangue
direi. È sentire un fibrillare tenue ma intenso che
dice: sei a casa.
Quale casa? La casa dei miei avi che altra terra non
ebbero che il Molise, che altra patria non sognarono
se non il Molise. Quando da donna giunsi a Caserta,
mi sentii per la prima volta in una nuova patria, amata
più di qualsiasi altro posto in cui ho a lungo vissuto.
Qui si sono realizzati i miei sogni, qui sono cresciuta,
lavorando e imparando. In questa nuova terra mi nutro,
traggo linfa. Qui amo. Le mie radici però restano,
massicce e nerborute, in quel lontano, prossimo, incantevole
Molise.”

Il racconto emozionale e gastronomico, si fonda sulla mitica figura di “Zia Pallotta” classe 1880, al secolo, zia Angela, ma soprannominata “Pallotta” per le sue caratteristiche fisiche e morali di dolcezza, rotondità,  accoglienza e pazienza.
“Non era sposata. Aveva amato un solo
uomo. Partito per la guerra in Libia non fece mai ritorno.
Fu lutto per la vita.
Aveva una casa zia Pallotta che sembrava quella delle
favole. Due stanze sovrapposte, collegate da una
scala interna. Un pollaio di fianco e un orto giardino
sul davanti. D’estate trascorrevo ore ad ascoltare le
storie che mi raccontava.
Quando dalla città mi trasferivo per le vacanze a casa
dei nonni era tradizione che lei preparasse per me
un pranzo speciale. Ammazzava il pollo buono. Una
parte la usava per fare un brodo saporito che ancora
oggi ricordo con trasporto, l’altra metà la mangiavamo
in due.
Cotto su un letto di patate quel pollo aveva un sapore
irripetibile. Poi c’erano i dolci di cui era maestra
assoluta: le pastarelle, la crema bianca, gli abbotta
pezzienti, la marmellata di fichi e di more. E i giochi.
Si dedicava a me. Giocavamo come due coetanee. Io
nella prima decina della mia vita, lei ultraottantenne.
Era meravigliosa. Lavorava con l’uncinetto, ricamava,
cuciva, ma soprattutto cucinava. Una grande chef
era la mia zia Pallotta. In paese la chiamavano Angeluccia.
Cucinava, inventava e raccoglieva ricette.
Ho trovato un giorno tra le carte di famiglia alcuni
suoi quaderni. Quelli sottili, sottili con la copertina
nera. Scritti con il pennino di ferro e l’inchiostro nel
calamaio. Vi ho scovato alcune delle cose che avevo
tanto amato mangiare, che possedevano il ricordo
della mia infanzia, il sapore buono di un tempo in cui
le sue coccole erano per me il dono dell’estate. Le
sue ricette sono quelle della mia terra. Alcune della
tradizione, altre della sua sperimentazione.
Tutte legate ai sapori poveri e genuini dell’habitat
della nostra gente. Pensai di donare a mia figlia questi
piccoli tesori di antica sapienza. Poi l’incontro con
Maria e Francesca Fazzi. «Hai ricette della tua terra
che raccoglieresti per noi?» mi chiesero. Il pensiero
volò a quei quaderni. Ed ora sono qui, in questo librino
fatto da donne. L’autrice, Angela Pinelli, detta
zia Pallotta, chiamata Angeluccia, le editrici lucchesi
con la testa nel futuro e l’anima nel passato e io, tra di
loro, trait d’union tra l’oggi e l’altro ieri.”

La raccolta di queste antiche ricette ha un eccezionale valore antropologico e affettivo: narra, con uno stile semplice, quasi casalingo,  del modo di vivere che può mutare e degli immortali sentimenti familiari, di ieri, di oggi e di domani.

Manuela Piancastelli, alla ricerca del fil rouge tra la storia di Nadia Verdile e quella di Terre del Principe ha organizzato questa riunione tra letteratura, storia e tradizioni gastronomiche.
Manuela Piancastelli nell'antica cantina di Squille, acquisita da circa tre anni.
Dopo la presentazione del racconto, ci si sposta di pochi km verso l’antica cantina, situata nel cuore di Castelcampagnano.
l'ingresso della cantina
Qui comincia il racconto di Manuela: la cantina si trova a 10  metri di profondità, un antichissimo cellaio ci circa 100 mq. Il narrare ci trasporta indietro nel tempo : si tratta di una costruzione nel tufo interamente scavata a mano che risale al X sec. d.C., epoca della nascita di Castelcampagnano. In cantina si entra da un ampio locale del XV sec. con pozzo e fornacella, un tempo usato come palmento. Qui a 10 mt sottoterra si trova la cantina storica di Terre del Principe, dove riposano i vini in affinamento, sia, in barrique, sia, in bottiglia, dove si svolgono tutte le operazioni necessarie per il buono stato di salute del vino e dove è situato l’archivio aziendale delle annate, sacrosanta abitudine che tutti i produttori dovrebbero acquisire.
la cantina – barricaia
archivio storico di cantina

Il vino, prosegue la Piancastelli, è come un bambino va accudito e seguito durante tutte le fasi della vita, in un ambiente adatto: questo lo è di sicuro. Si torna su attraverso una ripida scala di tufo.
la scala di accesso alla cantina

un angolo del piano superiore mostra gli elementi di una barrique
E’ ora di cena, si torna sotto il pergolato, dove lo chef Maurizio Piancastelli ha scelto di interpretare gli “zengarielli cu la mollica” e la “Micischia” a base di carne di pecora e peperoni. Ecco il menù completo: mozzarella di bufala e ricottine con marmellata di arance (il Casolare di Alvignano), pancetta e capicollo di maiale nero casertano (La Bottega buona, Vairano Patenora),
l'antipasto
terrina di caciocavallo (Casolare) alla pizzaiola;
terrina di caciocavallo (Casolare) alla pizzaiola

porri fasciati con guanciale di maiale nero gratinati al Fontanavigna;
porri fasciati con guanciale di maiale nero gratinati al Fontanavigna;
«zengarielli» ossia spaghetti integrali con mollica di pane, cipolla e alici salate con aggiunta di maggiorana;
«zengarielli» ossia spaghetti integrali con mollica di pane, cipolla e alici salate con aggiunta di maggiorana
«mesceschia» cioe` agnello al forno (macelleria Marcuccio Castel Campagnano) con erbe aromatiche e peperoni;
agnello
Infine cassata al bicchiere e liquori fatti in casa da Manuela.  I Vini: Fontanavigna 011, Roseto del Volturno 011, Castello delle Femmine 010 e Ambruco 06.

Una serata di conoscenza, sensazioni, ricordi, emozioni, terminata con un brindisi alla grande “Zia Pallotta”, ispiratrice inconsapevole, di questo piacevole e istruttivo intrattenimento.

* Insegnante di lettere, giornalista del Mattino (Ce) e storica del mondo al femminile che vive e lavora da sempre a Caserta

Nessun commento:

Posta un commento